mercoledì 27 giugno 2018

L’IO IPERTROFICO, ovvero una breve storia di come siamo giunti ad essere “noi stessi” …





L’io ipertrofico (checché ne dicano gli “esperti”) non è che l’io in quanto tale, vediamo perché.
Sarà stato al momento del passaggio tra la vaga consapevolezza umana dei Neanderthal a quella più marcata dei Cro-Magnon, oppure quando dalla pacifica organizzazione sociale matriarcale si è “evoluto” l’aggressivo stile di vita patriarcale, o in qualche altro sottile passagio organizzativo dei singoli gruppi sociali umani … fatto sta che gli individui, che fino ad allora erano semplici attori di una commedia che si giocava tutta all’interno del teatro della consapevolezza di “specie”, hanno iniziato a identificare nella “soggettività” il centro intorno al quale stabilire nuove regole di sopravvivenza e di predominio: la nascita dell’io, non più come comprimario, ma come mito nascente del potere e della sopravvivenza “ideologica” del medesimo. Fino ad allora, il gruppo (e in particolare, la lotta per il “possesso” delle femmine) era stato l’incarnazione della leadership e del privilegio di tramandare i propri geni, in nome dell’intera specie; ma in qualche misterioso momento, nella “mente” di alcuni “capibranco” si deve essere manifestato un nuovo “retropensiero”, o una qualche specie di “super-consapevolezza”, in seguito al quale il privilegio del comando identifica la “qualità” dell’essere “singolarmente” migliore degli altri. Questo primo “passaggio” porta alla nascita dell’IO: esisterà da quel momento in poi l’autoreferenzialità del potere fine a se stesso e la possibilità di tramandarlo ai posteri per garantirne la sopravvivenza. L’io impara a comandare non solo sui suoi pari ma anche sulla “specie”.
Il patriarcato diviene lo strumento per una patrilinearità forzata e di una innaturale protezione dei privilegi acquisiti: l’IO si ritaglia uno spazio “inusitato”nella realtà sociale e uno status che prenderà lentamente il posto di ogni altro “valore” conosciuto fino ad allora. Col tempo l’intero gruppo, e in seguito la specie in toto, tramanderà culturalmente un’entità “personale”, e di riflesso una “soggettività sociale”, che si riveleranno solo il frutto di una pura “invenzione” psicotica, appunto l’IO … e di riflesso, appunto , quello che alcuni psicologi del secolo scorso chiamarono il super-IO).
Queste “strutture” puramente emergenti, oggi ci sembrano pienamente scontate e in qualche modo “fisiologiche”, ma non lo sono, esse in realtà, non sono che “sovrastrutture”, acquisite in tempi antropologicamente recenti: come giustifico queste conclusioni? … Per il momento, la prova più evidente sono le malattie mentali e il crescente disagio psicologico tipico proprio di quella dimensione mentale che chiamiamo “io”. In sintesi, l’io si ammala con la progressiva “emersione” della sua inutilità ultima: La storia delle religioni, prima, e lo sviluppo della psicoterapia, poi, ci dicono quanto ciò sia vero e di quanto bisogno “esso” (l’io in quanto tale!!) abbia di ridimensionarsi e di ritornare alla sua funzione originaria di mero “segnaposto” nella rappresentazione mentale della realtà, al solo scopo di meglio comprenderla …
Per  capire tale concetto, dobbiamo partire dalla premessa fondamentale per cui: “ogni percezione è il risultato di una mediazione mnemonica tra la visione (e gli altri sensi in genere) sensoriale e  la ricostruzione di una immagine riferita ai ricordi, che una parte del cervello presenta a un’altra parte” … Ovvero, per capire quello che “vediamo”, una parte della nostra mente (una rappresentazione di noi stessi: l’io) deve poter riconoscere l’alterità di un’altra parte (e cioè la rappresentazione di qualcosa che deve essere collocata “altrove” e separata da sé: il mondo “la fuori”); come potremmo altrimenti avere una vita interiore, tout court? …
E’ importante ribadire come NON ESISTA ALCUNA “PERCEZIONE DIRETTA” nella nostra mente: OGNI SINGOLO EVENTO NON E’ CHE UNA RICOSTRUZIONE MNEMONICA, BASATA SU STIMOLI ELETTRICI, DI CIO’ CHE NOI SIAMO PORTATI A CHIAMARE REALTA’, sulla base di un ancestrale condizionamento psico-sociale. Anche ammettendo che una realtà “oggettiva” esista del tutto, “noi” non se siamo direttamente coinvolti, ma semmai ne viviamo un “riflesso” culturalmente mediato.



L’io ipertrofico (cioè l’io in quanto tale) è la malattia del secolo … da secoli: alcune religioni sono giunte a questa conclusione molto tempo fa, a differenza di una scienza, la Psicologia, che pur giungendo vicino alla medesima comprensione, ha rinunciato a farsene carico fino in fondo, a vantaggio del conformismo e del puro mestiere (leggi: psicoterapia cognitivo-comportamentale). Purtroppo anche quelle religioni che a suo tempo colsero in pieno il problema di fondo della mente umana, si sono lentamente “rinormalizzate” e sono rientrate nell’alveo della pura retorica ecumenista.
Nella mitologia buddista, per esempio, si racconta che all’interno della comunità degli adepti del Maestro si potesse discutere di tutto, ma che ogni qualvolta le domande vertessero sul significato ultimo del concetto di “nirvana” il maestro si chiudesse in un mutismo adamantino, appunto il “Silenzio del Buddha”. Ma cosa si nascondeva in quel silenzio misterioso? … Forse, e dico forse, l’intuizione del Maestro era che non sarebbe servito a niente fornire con le parole nient’altro che un ulteriore sostegno all’io dei suoi discepoli; invece che aiutarli piuttosto a destrutturarlo: nirvana è lo stato in cui l’io non conosce “separazione” e di conseguenza non ha più bisogni; cessa così il desiderio e con il desiderio la sofferenza … Il buddismo non ha bisogno di altre parole, che non sono altro che il nutrimento dell’io. Ma poi, purtroppo, l’io ha trovato nuovi escamotage per risorgere e oggi il buddismo non è che una delle tante religioni.

Non c'è il rischio che la remissione dell’io possa portare l’umanità allo stadio in cui correva il rischio di soccombere ad altre specie? … Fortunatamente, Sì.


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(*) Qui non esprimiamo valutazioni sulla scienza e sul lavoro di altri, ma esprimiamo (non primi e non unici) la convinzione che il disagio mentale non sia una malattia individuale, ma il sintomo dell’insostenibile pressione sociale che noi tutti subiamo e che alcuni somatizzano in modo più o meno deleterio. In qualche misura, in realtà, tale stato di cose affligge più o meno marcatamente tutta la popolazione … E la conseguenza di ciò è che dobbiamo imparare a smascherare il mito della malattia mentale (oggi in cui ricorrono i 40 anni della Legge Basaglia **), che serve unicamente per “consolare” i cosiddetti normali, ai quali viene concesso di “curarsi” autonomamente grazie all’alcol, al fumo, alle droghe varie, alla depressione e al suicidio, che vengono considerati, in fondo, comportamenti abbastanza “normali”. Sull’idea di normalità la nostra società ha costruito la maggior parte dei suoi (patetici) miti.

(**) Franco Basaglia, 1924-1980; psichiatra e promotore della riforma psichiatrica in Italia.


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PS. Se vogliamo prendere in considerazione un’analisi più approfondita sull’io, che ci spieghi la citata idea di “remissione” e di cosa ciò comporti in termini reali, possiamo dire che: la “coscienza” non è l’io, “rendersi conto del mondo” non è l’io … L’io non è che l’illusione emergente dall’osservazione “soggettiva” del mondo ed è anche ciò che ne può distruggere la semplice bellezza, la possibilità di osservare un particolare punto di vista sull’evanescente mondo e  proiettarlo al di “fuori di noi” … E invece si tratta sempre e solo di “noi stessi”, ma da due prospettive solo apparenti, prodotte dalla struttura mentale che ereditiamo dal nostro lignaggio: il punto è che se pure questo sistema si sia sviluppato grazie alla selezione naturale e sebbene esso sia servito a garantirci la sopravvivenza come specie per millenni, da questo non consegue che ci sia posto per un ruolo “puro” dell’io. Se non ci fosse l’io, non ci sarebbe un soggetto in grado di individuare il mondo come entità separata e autonoma, ma l’inverso non si applica, il mondo non c’è (almeno non nel modo prodotto dalle percezioni), non è affatto là fuori, anche questa e un’illusione.
La remissione dell’io non comporta una sconfitta della nostra specie a vantaggio di alcun “altro”: tutto questo è ancora e solo “proiezione” allucinatoria della soggettività egoica.




Senza l’io, non cambierebbero le cose, ritornerebbe semmai la possibilità (e non più di questo) di una percezione unitaria della “realtà”; o magari la possibilità di sentire la “realtà” con tutti i sensi e con un’equanimità priva di paura e capace di cogliere quindi TUTTE le trasformazioni in atto (in una parola: il “caos puro”), istante per istante, con la nuova consapevolezza che la realtà è, per così dire, un fiume in corsa verso un mare lontano, nel quale le costanti trasformazioni non danno il tempo per costruire dighe, per mettere su civiltà, per pensare al futuro, per illudersi di poter cogliere una qualche verità definitiva … un fiume ideale che ci lasci attoniti, abbacinati, incapaci di esprimere parole, totalmente partecipi dell’inarrestabile trasformazione di tutto e di ogni cosa … sopraffatti e straordinariamente … felici. Al prezzo di ... 

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PS2. Ovviamente la felicità non può più essere lo scopo di una vita, oggigiorno (checché ne dica la costituzione USA), ormai è troppo tardi per questo. L’evoluzione della nostra specie è una cosa, mentre l’evoluzione della nostra società ha preso strade proprie, del tutto autonome e pilotate da esigenze che col benessere degli individui e con la ricerca della felicità hanno poco o punto a che vedere … Se l’io (ipertrofico) ha preso una brutta strada, la sua trasposizione collettiva, la società, non può che riprodurre tale deviazione in grande: la società manifesta tutte le storture di tale io e le trasforma in sistema; un sistema demenziale che si fonda su una patologia elevata a mito.
In una situazione di questo tipo chiunque (paradossalmente) fosse anche “normale” (o quasi) sarebbe non solo svantaggiato ma destinato, prima o poi, a soccombere.
Ovviamente, per poter sostenere un’individualità artificiale (quale quella basata sul tipo di “io” di cui stiamo dicendo), occorre una collettività improntata al mito dell’io come statuto fondamentale della realtà: tutte le devianze dell’io sono inglobate nel comportamento sociale e di conseguenza in quello politico … Ed è così che le società e i popoli si trasformano in macchine da guerra per la protezione dei principi dell’autocompiacimento e dell’autoesaltazione egoici.
Il mito del progresso è l’arma che da tempo spinge la nostra società verso un destino di caos inevitabile, ma del tutto artificioso: il caos che ci fa tanta paura e che pertiene alla natura dell’universo, paradossalmente spaventava l’io al punto che l’unico modo per difendersene è stato un abominio di caos creato artificialmente e altrettanto spaventoso … La nostra attuale società, così tanto elogiata, così tanto enfatizzata, così superiore a quelle del passato, così allegramente protesa a perseguire il suo ideale di progresso, da non vedere che è proprio ciò che le sta scavando la fossa …




Il paradosso ancora più triste è che l’illusione arriva al punto da farci credere che il problema siano l’inquinamento, la lenta decrescita della biodiversità, la sovrappopolazione, e via dicendo … Ma questi sono solo i sintomi finali, i rantoli di un morente che non conosce le cause del proprio male … Quel male che si nasconde nella nostra mente e nella ormai cronica incapacità di percepire il mondo per quello che è … ovvero che “era”, prima che ci illudessimo di sapere tutto, prima che l’io diventasse il centro dell’universo.
Quale senso avrebbe, alla fine, la creazione di questo “caos artificiale”? … Il solito: il potere, il controllo, la necessità di trovare un’autorità superiore con una scusa plausibile; ma questa volta potrebbe essere l’ultima, se a prendere il controllo fosse un sistema autonomo; un sistema concepito per renderci la vita più facile e più sicura … No, non fraintendetemi, non si tratta del Grande Fratello … Macché! …

“Noi, a differenza di altri governi, staremmo pensando a qualcosa di decisamente amichevole, vicino alle necessità di ciascuno e di tutti, severo quando si tratta di proteggerci dalle minacce incombenti, ma giusto e compassionevole con coloro che rispettano le regole … potremmo dire ... se vogliamo rimanere in metafora, un … Grande Cugino.”


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