L’io ipertrofico (checché ne dicano gli “esperti”)
non è che l’io in quanto tale, vediamo perché.
Sarà stato al momento del passaggio tra la
vaga consapevolezza umana dei Neanderthal a quella più marcata dei Cro-Magnon,
oppure quando dalla pacifica organizzazione sociale matriarcale si è “evoluto”
l’aggressivo stile di vita patriarcale, o in qualche altro sottile passagio
organizzativo dei singoli gruppi sociali umani … fatto sta che gli individui,
che fino ad allora erano semplici attori di una commedia che si giocava tutta
all’interno del teatro della consapevolezza di “specie”, hanno iniziato a
identificare nella “soggettività” il centro intorno al quale stabilire nuove
regole di sopravvivenza e di predominio: la nascita dell’io, non più come
comprimario, ma come mito nascente del potere e della sopravvivenza “ideologica”
del medesimo. Fino ad allora, il gruppo (e in particolare, la lotta per il “possesso”
delle femmine) era stato l’incarnazione della leadership e del privilegio di
tramandare i propri geni, in nome dell’intera specie; ma in qualche misterioso
momento, nella “mente” di alcuni “capibranco” si deve essere manifestato un
nuovo “retropensiero”, o una qualche specie di “super-consapevolezza”, in
seguito al quale il privilegio del comando identifica la “qualità” dell’essere “singolarmente”
migliore degli altri. Questo primo “passaggio” porta alla nascita dell’IO: esisterà
da quel momento in poi l’autoreferenzialità del potere fine a se stesso e la
possibilità di tramandarlo ai posteri per garantirne la sopravvivenza. L’io
impara a comandare non solo sui suoi pari ma anche sulla “specie”.
Il patriarcato diviene lo strumento per una
patrilinearità forzata e di una innaturale protezione dei privilegi acquisiti: l’IO
si ritaglia uno spazio “inusitato”nella realtà sociale e uno status che
prenderà lentamente il posto di ogni altro “valore” conosciuto fino ad allora.
Col tempo l’intero gruppo, e in seguito la specie in toto, tramanderà
culturalmente un’entità “personale”, e di riflesso una “soggettività sociale”,
che si riveleranno solo il frutto di una pura “invenzione” psicotica, appunto l’IO
… e di riflesso, appunto , quello che alcuni psicologi del secolo scorso
chiamarono il super-IO).
Queste “strutture” puramente emergenti, oggi
ci sembrano pienamente scontate e in qualche modo “fisiologiche”, ma non lo sono,
esse in realtà, non sono che “sovrastrutture”, acquisite in tempi
antropologicamente recenti: come giustifico queste conclusioni? … Per il
momento, la prova più evidente sono le malattie mentali e il crescente disagio psicologico
tipico proprio di quella dimensione mentale che chiamiamo “io”. In sintesi, l’io
si ammala con la progressiva “emersione” della sua inutilità ultima: La storia
delle religioni, prima, e lo sviluppo della psicoterapia, poi, ci dicono quanto
ciò sia vero e di quanto bisogno “esso” (l’io in quanto tale!!) abbia di
ridimensionarsi e di ritornare alla sua funzione originaria di mero “segnaposto”
nella rappresentazione mentale della realtà, al solo scopo di meglio comprenderla
…
Per capire
tale concetto, dobbiamo partire dalla premessa fondamentale per cui: “ogni
percezione è il risultato di una mediazione mnemonica tra la visione (e gli
altri sensi in genere) sensoriale e la
ricostruzione di una immagine riferita ai ricordi, che una parte del cervello
presenta a un’altra parte” … Ovvero, per capire quello che “vediamo”, una parte
della nostra mente (una rappresentazione di noi stessi: l’io) deve poter
riconoscere l’alterità di un’altra parte (e cioè la rappresentazione di
qualcosa che deve essere collocata “altrove” e separata da sé: il mondo “la
fuori”); come potremmo altrimenti avere una vita interiore, tout court? …
E’ importante ribadire come NON ESISTA ALCUNA
“PERCEZIONE DIRETTA” nella nostra mente: OGNI SINGOLO EVENTO NON E’ CHE UNA
RICOSTRUZIONE MNEMONICA, BASATA SU STIMOLI ELETTRICI, DI CIO’ CHE NOI SIAMO
PORTATI A CHIAMARE REALTA’, sulla base di un ancestrale condizionamento
psico-sociale. Anche ammettendo che una realtà “oggettiva” esista del tutto, “noi”
non se siamo direttamente coinvolti, ma semmai ne viviamo un “riflesso” culturalmente
mediato.
L’io ipertrofico (cioè l’io in quanto tale) è
la malattia del secolo … da secoli: alcune religioni sono giunte a questa
conclusione molto tempo fa, a differenza di una scienza, la Psicologia, che pur
giungendo vicino alla medesima comprensione, ha rinunciato a farsene carico fino
in fondo, a vantaggio del conformismo e del puro mestiere (leggi: psicoterapia
cognitivo-comportamentale). Purtroppo anche quelle religioni che a suo tempo
colsero in pieno il problema di fondo della mente umana, si sono lentamente “rinormalizzate”
e sono rientrate nell’alveo della pura retorica ecumenista.
Nella mitologia buddista, per esempio, si
racconta che all’interno della comunità degli adepti del Maestro si potesse discutere
di tutto, ma che ogni qualvolta le domande vertessero sul significato ultimo
del concetto di “nirvana” il maestro si chiudesse in un mutismo adamantino,
appunto il “Silenzio del Buddha”. Ma cosa si nascondeva in quel silenzio
misterioso? … Forse, e dico forse, l’intuizione del Maestro era che non sarebbe
servito a niente fornire con le parole nient’altro che un ulteriore sostegno
all’io dei suoi discepoli; invece che aiutarli piuttosto a destrutturarlo:
nirvana è lo stato in cui l’io non conosce “separazione” e di conseguenza non
ha più bisogni; cessa così il desiderio e con il desiderio la sofferenza … Il
buddismo non ha bisogno di altre parole, che non sono altro che il nutrimento
dell’io. Ma poi, purtroppo, l’io ha trovato nuovi escamotage per risorgere e
oggi il buddismo non è che una delle tante religioni.
Non c'è il rischio che la remissione dell’io possa portare
l’umanità allo stadio in cui correva il rischio di soccombere ad altre
specie? … Fortunatamente, Sì.
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(*) Qui non esprimiamo valutazioni sulla
scienza e sul lavoro di altri, ma esprimiamo (non primi e non unici) la
convinzione che il disagio mentale non sia una malattia individuale, ma il
sintomo dell’insostenibile pressione sociale che noi tutti subiamo e che alcuni
somatizzano in modo più o meno deleterio. In qualche misura, in realtà, tale
stato di cose affligge più o meno marcatamente tutta la popolazione … E la conseguenza
di ciò è che dobbiamo imparare a smascherare il mito della malattia mentale (oggi in cui ricorrono i 40 anni della Legge Basaglia **), che serve unicamente per “consolare”
i cosiddetti normali, ai quali viene concesso di “curarsi” autonomamente grazie
all’alcol, al fumo, alle droghe varie, alla depressione e al suicidio, che
vengono considerati, in fondo, comportamenti abbastanza “normali”. Sull’idea di
normalità la nostra società ha costruito la maggior parte dei suoi (patetici)
miti.
(**) Franco Basaglia, 1924-1980; psichiatra e
promotore della riforma psichiatrica in Italia.
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PS. Se vogliamo prendere in considerazione un’analisi
più approfondita sull’io, che ci spieghi la citata idea di “remissione” e di
cosa ciò comporti in termini reali, possiamo dire che: la “coscienza” non è l’io,
“rendersi conto del mondo” non è l’io … L’io non è che l’illusione emergente dall’osservazione
“soggettiva” del mondo ed è anche ciò che ne può distruggere la semplice
bellezza, la possibilità di osservare un particolare punto di vista sull’evanescente
mondo e proiettarlo al di “fuori di noi”
… E invece si tratta sempre e solo di “noi stessi”, ma da due prospettive solo apparenti,
prodotte dalla struttura mentale che ereditiamo dal nostro lignaggio: il punto
è che se pure questo sistema si sia sviluppato grazie alla selezione naturale e
sebbene esso sia servito a garantirci la sopravvivenza come specie per millenni,
da questo non consegue che ci sia posto per un ruolo “puro” dell’io. Se non ci
fosse l’io, non ci sarebbe un soggetto in grado di individuare il mondo come
entità separata e autonoma, ma l’inverso non si applica, il mondo non c’è (almeno
non nel modo prodotto dalle percezioni), non è affatto là fuori, anche questa e
un’illusione.
La remissione dell’io non comporta una
sconfitta della nostra specie a vantaggio di alcun “altro”: tutto questo è
ancora e solo “proiezione” allucinatoria della soggettività egoica.
Senza l’io, non cambierebbero le cose, ritornerebbe
semmai la possibilità (e non più di questo) di una percezione unitaria della “realtà”;
o magari la possibilità di sentire la “realtà” con tutti i sensi e con un’equanimità
priva di paura e capace di cogliere quindi TUTTE le trasformazioni in atto (in
una parola: il “caos puro”), istante per istante, con la nuova consapevolezza
che la realtà è, per così dire, un fiume in corsa verso un mare lontano, nel
quale le costanti trasformazioni non danno il tempo per costruire dighe, per
mettere su civiltà, per pensare al futuro, per illudersi di poter cogliere una
qualche verità definitiva … un fiume ideale che ci lasci attoniti, abbacinati,
incapaci di esprimere parole, totalmente partecipi dell’inarrestabile
trasformazione di tutto e di ogni cosa … sopraffatti e straordinariamente …
felici. Al prezzo di ...
PS2. Ovviamente la felicità non
può più essere lo scopo di una vita, oggigiorno (checché ne dica la
costituzione USA), ormai è troppo tardi per questo. L’evoluzione della nostra specie
è una cosa, mentre l’evoluzione della nostra società ha preso strade proprie,
del tutto autonome e pilotate da esigenze che col benessere degli individui e
con la ricerca della felicità hanno poco o punto a che vedere … Se l’io (ipertrofico)
ha preso una brutta strada, la sua trasposizione collettiva, la società, non
può che riprodurre tale deviazione in grande: la società manifesta tutte le
storture di tale io e le trasforma in sistema; un sistema demenziale che si
fonda su una patologia elevata a mito.
In una situazione di questo tipo chiunque (paradossalmente)
fosse anche “normale” (o quasi) sarebbe non solo svantaggiato ma destinato,
prima o poi, a soccombere.
Ovviamente, per poter sostenere un’individualità
artificiale (quale quella basata sul tipo di “io” di cui stiamo dicendo),
occorre una collettività improntata al mito dell’io come statuto fondamentale
della realtà: tutte le devianze dell’io sono inglobate nel comportamento
sociale e di conseguenza in quello politico … Ed è così che le società e i
popoli si trasformano in macchine da guerra per la protezione dei principi dell’autocompiacimento
e dell’autoesaltazione egoici.
Il mito del progresso è l’arma che da tempo
spinge la nostra società verso un destino di caos inevitabile, ma del tutto
artificioso: il caos che ci fa tanta paura e che pertiene alla natura dell’universo,
paradossalmente spaventava l’io al punto che l’unico modo per difendersene è
stato un abominio di caos creato artificialmente e altrettanto spaventoso … La
nostra attuale società, così tanto elogiata, così tanto enfatizzata, così
superiore a quelle del passato, così allegramente protesa a perseguire il suo ideale
di progresso, da non vedere che è proprio ciò che le sta scavando la fossa …
Il paradosso ancora più triste è che l’illusione
arriva al punto da farci credere che il problema siano l’inquinamento, la lenta
decrescita della biodiversità, la sovrappopolazione, e via dicendo … Ma questi
sono solo i sintomi finali, i rantoli di un morente che non conosce le cause
del proprio male … Quel male che si nasconde nella nostra mente e nella ormai cronica
incapacità di percepire il mondo per quello che è … ovvero che “era”, prima che
ci illudessimo di sapere tutto, prima che l’io diventasse il centro dell’universo.
Quale senso avrebbe, alla fine, la creazione
di questo “caos artificiale”? … Il solito: il potere, il controllo, la
necessità di trovare un’autorità superiore con una scusa plausibile; ma questa
volta potrebbe essere l’ultima, se a prendere il controllo fosse un sistema
autonomo; un sistema concepito per renderci la vita più facile e più sicura …
No, non fraintendetemi, non si tratta del Grande Fratello … Macché! …
“Noi, a
differenza di altri governi, staremmo pensando a qualcosa di decisamente
amichevole, vicino alle necessità di ciascuno e di tutti, severo quando si
tratta di proteggerci dalle minacce incombenti, ma giusto e compassionevole con
coloro che rispettano le regole … potremmo dire ... se vogliamo rimanere in
metafora, un … Grande Cugino.”
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